Miti e leggende
Campania Felix cosi chiamata in antichità poiché le coltivazioni prosperavano su terre vulcaniche in particolare le piante da frutto a cui si ascrive la vitis vinifera, e dove ad oggi le migliori produzioni derivano da zone celebrate in antichità da Greci e Romani sia dell’entroterra appenninico di Benevento ed Avellino sia nella costa di Amalfi.
I Protagonisti indiscussi della mitologia Campana in ambito enologico sono Bacco e Lucifero e prima ancora in epoca di dei pagani Omero e Ulisse; si, perché questa regione italiana offre una terra fertilissima ed una produzione pregiatissima di vini autoctoni che spesso derivano da leggende e curiosità che impregnano la storia dei suoi prodotti.
Il vigoroso vigneto del Falerno, secondo il mito narrato da tanti cronisti di età romana a partire da Silio Italico, fu Bacco in persona che diede vita al vino più celebrato e costoso dell’antichità, nonché una delle prime “denominazioni” della storia.
L’eccentrica divinità si era presentato sotto mentite spoglie ad un anziano agricoltore di nome Falerno che viveva ai piedi del monte Massico.
Nonostante la sua umile condizione, l’anziano offrì al pellegrino tutto ciò che aveva: latte, miele, e frutta, la divinità cosi commossa dalla sua generosità trasformò il latte in un vino che oggi conosciamo come vino pluripremiato, ricco, armonioso, e longevo.
Diede da bere all’agricoltore e questi si addormentò, per scoprire che al suo risveglio tutto il declivio del Massico era stato trasformato in un florido vigneto, capace di plasmare un nettare incantevole, destinato alle tavole degli imperatori.
Oggi la produzione de l’Ager Falernus corrisponde a cinque comuni ben delineati, una DOC riconosciuta nel 1989, ottenuto da una precisa identificazione dalle radici molto antiche: ritrovamenti di anfore utilizzate per la sua produzione e per il suo commercio provviste di etichette ed anno di incisione timbri in ceralacca e tipologia di origine.
Tra le molte leggende note c’è quella di Lucifero, l’angelo prediletto e sapiente del Paradiso che prima della sua caduta si ribellò a Dio e guidò la rivolta degli angeli che si trasformarono in demoni.
Rappresentato nell’arte figurativa da Giotto nella Cappella degli Scrovegni, e da Coppo di Marcovaldo nel Battistero di Firenze, schiacciato dalla sua superbia, Lucifero cadde dal cielo insieme al suo esercito maligno per sprofondare nelle viscere della terra e diventare il sovrano dell’Inferno. Prima di precipitare, però, strappò dall’Eden uno scorcio incantevole, quello che poi sarebbe diventato l’oggi Golfo di Napoli.
Affranto per questa doppia perdita, Dio nella sua forma trinitaria pianse e là dove caddero le sue lacrime, alle pendici del Vesuvio, germogliarono le viti preziosissime del vino oggi chiamato Lacryma Christi.
Questo meraviglioso vino, anche lui DOC importante della zona del Vesuvio, risale a tempi molto antichi, altri affreschi ritraggono Bacco “che amo’ queste colline più delle sue native di Nisa”, le uve autoctone coinvolte per la produzione di questa perla sono sia bacca bianca che rossa: Caprettone, Coda di Volpe, Falanghina, Greco nella versione bianco, e Piedirosso per le versioni rosso e rosato.
Infine o Campi Flegrei intorno a Napoli, e le isole di Ischia e Capri impregnate di leggende, i primi approdi “son quelle le coste del Tirreno risonanti al soave canto delle ninfe dalle crespe chiome (..)tra Sorrento e Capri i periglioso scogli delle sirene alletatrici, nelle cui acque non giunse mai nocchiero senza gustarne dolcezza(..)” Terra dove Ulisse giunse naufrago e vi fu accolto dalla bella Nausicaa e ancora prima i Fenici, navigarono queste acque e giunsero in queste coste portando forse proprio le prime viti.
Un Vulcano di autoctoni
Le zone vitivinicole campane si possono suddividere in cinque principali, quella intorno alla città di Caserta, poi spostandoci verso est il Beneventano ove la zona più rinomata c’è quella del Taburno, la terza grande area e patria del vitigno Aglianico ovvero la zona di Avellino (Irpinia), poi la zona di Napoli e Campi Flegrei, terra ardente di vulcani attivi dove Piedirosso e Falanghina trovano aree fertili per espandersi, ed infine spostandoci verso sud abbiamo la costa di Amalfi, in grado di competere con i suoi autoctoni con i migliori vini della penisola.
Zona di vulcani vivi e non, dal Vesuvio, ai Campi Flegrei che dal greco “Flego” significa “Brucio” a ovest di Napoli con ventiquattro crateri in attività sismica costante, al vulcano Roccamonfina oggi spento, danno tutti cosi origine ad una terra di fuoco con materiale piroclastico e fonte di ricchezza minerale del suolo ricca anche di potassio (precursore degli zuccheri nelle uve), tutti elementi che danno origine a uve antiche che si adattano qui e solo qui, eleganti e sapide, per vini unici, dalle grandi personalità alcoliche, e molto longevi.
Una grandissima varietà di vitigni autoctoni, dove tipi di terreni e altitudini sono stati forti antagoniste della fillossera, che, a determinate condizioni climatiche e del suolo non riesce a sopravvivere.
Infine un’eccezionale diversità che sfocia nella zona irpina e di Ischia, dove la viticoltura eroica ha preso piede strappando lembi di terreno coltivabile, che ritroviamo in Italia nelle regioni Liguria, Valtellina e Valle d’Aosta.
I grandi protagonisti di questi eccezionali vini sono: Aglianico, Piedirosso, Falanghina, Coda di volpe, Fiano e Greco, che danno origine alle grandi denominazioni di origine controllata come Il Taburno, o il Taurasi, rossi dai grandi invecchiamenti con acidità e tannini spinti, e corpo importante; oppure i grandi bianchi Fiano di Avellino e Greco di Tufo, quest’ultimo anch’esso caratterizzante di vini bianchi di corpo, struttura, sapidità, e grandi longevità.
La Doc del Falerno nel Casertano, prevede Aglianico e Primitivo, la versione rossa un connubio perfetto di due vitigni che ben si compensano, mentre il bianco la Falanghina ampia e aromatica.
La Doc che tutela i Campi Flegrei, ha posto le basi per una coltivazione ragionata della vite, dopo la conferma di tutela dal consorzio nel 1994, oggi qui Piedirosso e Falanghina meritano un posto di tutto rispetto all’interno dell’enologia Italiana, al contrario di vecchie dicerie sul “vino che puzza di zolfo”, questa zona regala vini di una finezza olfattiva, carattere indentitario espressione del terrori campano per eccellenza, ed una eleganza sia nel corpo che nelle acidità.
Altri protagonisti indiscussi degli autoctoni di questa zona, provengono dalla costiera amalfitana: qui troviamo terrazzamenti con dislivelli importanti tra i 200 e 500 metri, a picco sul mare, con esposizioni spesso a sud.
Questi vini profumano di macchia mediterranea, frutta matura e hanno note sapide grazie alla vicinanza del mare.
I nomi hanno spesso origini curiose, come ad esempio il grande Aglianico, da Ellenico, un’uva che nel nome indica la sua origine greca, mentre il Fiano deriva da quello romano di Vitis apiana, che stava ad indicare come fosse gradito alle api per la dolcezza dei suoi acini; o ancora il Coda di Volpe, chiamata anche Pallagrello o Coda di Pecora, e deve il suo nome alla forma del grappolo che ricorda la coda delle volpi o ancora il Piedirosso, a Napoli “per’ ‘e palummo” che deve il suo nome alla forma del raspo che ricorda quello di una zampa di piccione.
Connubio di Sapori: quando la cucina partenopea incontra i suoi vini
La cucina campana, che si fonda anch’essa in antiche radici greche e romane, passando per denominazioni francesi e spagnole, si è arricchita di piatti dai più elaborati ai più semplici della cultura popolare.
Un prodotto tipico ad esempio è la colatura delle alici della baia di Cetara in costiera amalfitana, facilmente abbinabili ai vini sapidi e mediterranei bianchi sopra citati della zona.
Quando la borghesia ebbe un po’ più di influenza (tanto da formare un divario culturale con il popolo), iniziamo a trovare piatti più ricercati come il brodo di polpo versus la zuppa di freselle, entrambi piatti facilmente abbinabili ai bianchi corposi come il Greco di Tufo, con sentori mediterranei di ginestra, camomilla e tiglio che ne arricchiscono i sapori.
Sempre in ambito marino il Polpo alla Luciana, nato proprio nel quartiere omonimo di Santa Lucia a due passi dal mare, viene cotto in salsa di pomodoro con aggiunta di capperi ed olive, servito sia come primo piatto in veste di condimento di spaghetti al dente, oppure come secondo piatto.
Anche in questo caso i bianchi corposi, con note affumicate tipiche del Greco di Tufo possono aiutare ad arricchire il piatto partenopeo.
A Natale fa da padrone il capitone, ovvero l’anguilla che fritta insieme al baccalà con aromi forti e pungenti si impadronisce delle tavole natalizie per arricchirne di sapori le abbuffate del periodo festivo. Data la sua corposità, ha bisogno di vini dalle elevate acidità come un Fiano o un Aglianico non troppo corposo magari in versione rosata per arricchirlo.
E visto che siamo in tema e vicini alle festività, a Pasqua da queste parti si arricchiscono le tavole con il casatiello un vero e proprio impasto ricolmo di salumi e formaggi dove vengono poste le uova fresche che durante la cottura al forno diventeranno sode.
Salsiccia e friarielli (una sorta di cime di rapa coltivate di questa zona) con provola, combo di tre elementi speciali che qui vengono utilizzate sia per condire la pizza, in versione bianca, oppure per condire la pasta come le orecchiette o i paccheri.
Questo piatto, grazie all’ affumicatura della provola e agli altri due elementi di carattere ma delicati, ha bisogno di un rosso importante come l’Aglianico del Taburno, che anche grazie ai terreni vulcanici rilascia delle note affumicate al vino stesso che combaciano perfettamente con questi sapori.
Ragù napoletano, grasso succulento, abbinabile ad un fresco Aglianico in una facile versione che fa solo acciaio, come quello dei Campi Taurasini.
E a proposito di pizza, visto che è il piatto napoletano per antonomasia, dalla semplice margherita, piccola concentrata e con ingredienti classici ed eccellenti, fino alla pizza fritta (ricolma di prelibatezze come “cicoli”, provola e ricotta) entrambe emblema di questo popolo e della sua storia.
Qualche regola sul come poter accompagnare questo piatto, invece della solita birra meglio preferire vini rossi poco tannici e più fini come il Piedirosso, o un Aglianico magari rosato, in generale vini dalle acidità croccanti e fresche; alla pizza bianca, oppure fritta, una bolla oppure un Greco di Tufo aiutano a sgrassare ed a bilanciare gli ingredienti più corposi e succulenti; e proprio la pizza fritta necessita di una bolla sgrassante di tutto rispetto, come ad esempio una bolla metodo classico dell’Irpinia che assicura delle acidità pungenti.
Impepata di cozze o vongole veraci facilmente abbinabili a Fiano oppure Greco per pulire la bocca e dare ancora più carattere a questi piatti.
Nel salernitano e nell’aversano, con le due varianti quasi agli antipodi di mozzarelle di bufala, possiamo sbizzarrirci con i rispettivi vini locali a seconda di quale momento del pasto stiamo affrontando, se inizio oppure se verso la fine.
Parmigiana di melanzane, per la cultura locale è un contorno a base di melanzane fritte e distese su un letto di sugo, per vari strati intervallati da mozzarella che le fa rimanere compatte e “filanti”; in questo caso un’ ottima combinazione può essere un Aglianico in versione rosato oppure il Piedirosso.
Nella tradizione, dopo esserci abbuffati di piatti eccezionali, con sapori e profumi tipici, dobbiamo concludere almeno assaggiando la Pastiera, le sfogliatelle oppure “nu baba’”
Tutti dolci tipici, la prima nella sua declinazione riccia e frolla, la seconda solida e compatta ma con un morbido cuore di crema di ricotta e scorze di arancia candita, per finire con “il re dei dolci, il dolce dei re” il Babà, dessert imbevuto nel rum in versione mignon oppure decisamente più grande e spesso farcito.
Come il Babà sia giunto nella tradizione partenopea risale a quando Maria Antonietta sposa di Luigi XVI e cognata di Ferdinando IV di Borbone, venne a conoscenza di questo famoso dolce grazie al re di Polonia in esilio sul territorio di oltralpe che rese (si dice per un caso fortuito) la pasta asciutta spugnosa e morbida aggiungendo uno sciroppo al rum.
Antiche leggende, incroci di culture, confronti di sapori, hanno reso questa terra fertile un punto di riferimento della cucina tradizionale prima partenopea e poi parte integrante di quella italiana, riscuotendo oramai un successo mondiale;
Tra terra e mare, tra miseria e nobiltà, sapori mediterranei, freschi, sapidi e affumicati, di grande carattere che ritroviamo nei piatti e nei calici di questa spettacolare regione.