Il mondo vive seguendo le mode del momento, si sa. In qualunque aspetto delle nostre vite. Il vino non è esente da queste fluttuazioni che portano alcuni stili di vini a divenire particolarmente ricercati in taluni momenti, salvo poi cedere il podio ad altri. Attenzione però: spesso, troppo spesso, chi è finito con un piccolo salvagente a forma di pellicano in mezzo alla Corrente del Golfo della moda del momento non si rende perfettamente conto che, per quanto l’acqua della corrente sia calda nel Golfo del Messico – in cui nasce – questa è destinata a raffreddarsi inesorabilmente man mano che va avanti.
Così, ad esempio, ci si dimentica che all’epoca dei famosi vini californiani iper-alcolici, iper-legnosi, iper-profumati, iper-tutto-quello-che-vi-viene-in-mente beh, anche in Italia la situazione non era troppo diversa. I consumatori chiedevano quei vini, i critici li acclamavano, i produttori li mettevano in commercio, in un circolo vizioso senza fine.
Ma come tutte le mode, anche quella dei vini dopati è andata scemando nel tempo, per lasciare il posto a vini più contenuti in alcol e più approcciabili in generale. Anzi, dalla tendenza a produrre vini più gentili il mondo si è evoluto sempre più verso vini più delicati per il palato ma anche per l’ambiente. L’ambiente oggi è un argomento sulla cresta dell’onda, per una serie di ottime ragioni, e sta spingendo tutta l’industria del vino mondiale verso atteggiamenti rispettosi per l’ambiente stesso. Il che si traduce poi in rispetto verso noi consumatori (e prima ancora, abitanti di questa splendida palla bianca e azzurra vagante nel cosmo).
Il classico “ritorno alle origini” inteso come ritorno ai tempi in cui le cose semplici erano le migliori – e le più sane – ha guidato il movimento dei vini naturali, ossia vini prodotti secondo natura.
Alt!!! Rileggiamo la frase qui sopra: prodotti secondo natura… Come dire, non faccio nulla e trovo il vino pronto, si? No.
Ma seguiamo un minimo ordine temporale di quanto è successo negli ultimi anni. Esploso in Francia ormai parecchi anni fa, il movimento dei vini naturali si è presto allargato a tutto il mondo e, in breve tempo, ha conquistato il cuore (dovrei dire anche il palato credo, ma davvero faccio fatica…) di molti appassionati, con la nascita di associazioni più o meno ufficiali, magazines, enoteche, fiere. Il club dei vini naturali era pressoché inaccessibile agli appassionati di vino se non previa conversione al credo “zero intervento”. Per quale ragione? Soprattutto all’inizio, i vini naturali presentavano una tale serie di difetti olfattivi e gustativi da risultare al limite dell’imbevibile da chiunque non avesse abbracciato il movimento alternativo. E quando dico “al limite dell’imbevibile” credetemi, mi tengo a freno.
A sostegno di quanto appena affermato, proseguendo sull’asse temporale di questo movimento, negli anni l’estremismo naturale è andato parecchio smorzandosi: i produttori hanno ridimensionato la loro visione di “intervento zero” per virare verso un “basso intervento”, che permetta di trarre il meglio dalle uve senza esagerare con gli aiuti tecnologici. Controllo della temperatura in fermentazione, lieviti selezionati, filtrazioni, selezione delle uve, trattamenti fitosanitari in vigna, chiarifiche, correzioni, tutto ciò era ridotto allo zero nei primi momenti del movimento dei vini naturali ma, chi prima e chi poi, ci siamo resi conto che i risultati erano una cozzaglia di odori sgradevoli, livelli di acidità da far lacrimare persino uno squalo al largo dell’Australia Occidentale, rifermentazioni spontanee all’ordine del giorno e così via.
Tutto sommato, però, cosa c’è di sbagliato nel voler produrre un vino senza il minimo intervento da parte dell’uomo, lasciando quindi che tutto il lavoro lo faccia la natura? Beh, di sbagliato, o meglio, di fuorviante, c’è proprio il nome dato a questi vini – e ancora di più l’interpretazione di questo nome. La dicitura “vini naturali” è fuorviante per il consumatore, soprattutto se questi si trova agli esordi della personale esplorazione vinicola. Soprattutto al principio del movimento, è stato fatto passare il termine “vino naturale” come vino prodotto senza l’intervento umano, ossia lasciando fare tutto a Madre Natura, con il non celato intento di interpretare tali vini come più salutari, più rispettosi della natura stessa e, di conseguenza, migliori dei vini “convenzionali”.
Ora, saremo tutti d’accordo nell’affermare che (qualsiasi) produzioni più sostenibili – rispettose dell’ambiente e del genere umano – siano decisamente da applaudire, così come saremo tutti d’accordo che “più buono” e “meno buono” sono concetti molto personali. Non tutti saremo d’accordo però sul reale significato di “vino naturale”. O meglio, io sono completamente in disaccordo sul termine stesso.
Perché questo pensiero? Semplificando: il vino, in natura, non esiste. Fine. Semplice. Come qualsiasi frutto, l’uva, una volta raggiunta la piena maturazione, cadrebbe dalla pianta per entrare nella catena alimentare della natura, dando origine a nuova vita e così via. Ma sicuramente non diventerebbe vino. A meno che non intervenga l’uomo a cambiarne le sorti. Quindi “vino naturale” è praticamente un ossimoro e, di conseguenza, non dovrebbe essere usato. Anche perché in grado di distorcere facilmente le idee del consumatore, apparendo un prodotto ottenuto senza alcun intervento da parte dell’uomo.
Ricordate l’acqua calda della Corrente del Golfo che allontanandosi dal Golfo del Messico va via via raffreddandosi? Ebbene, anche la scia dei vini naturali sta seguendo lo stesso corso. I puristi del “intervento zero” ci sono sempre e ci saranno sempre, ma gran parte degli estremisti di un tempo ora indicano i loro vini come a “basso intervento”, ossia con manipolazioni e/o uso di prodotti ridotti al minimo, in modo che i loro prodotti siano il più “naturale” possibile, ma anche graditi da un pubblico più ampio, oltre che privi di palesi difetti del passato.
Roberto Lo Russo
Formazione Sommelier Degustibuss Milano