L’Italia custodisce un patrimonio vitivinicolo tra i più vasti e diversificati al mondo: oltre 500 varietà riconosciute, molte delle quali sconosciute al grande pubblico. Dietro a questa ricchezza si celano storie di territori, di viticoltori tenaci e di tradizioni secolari che rischiano di scomparire. Negli ultimi anni, però, una nuova generazione di produttori e appassionati ha intrapreso un percorso di riscoperta dei vitigni autoctoni dimenticati, riportando alla luce uve che raccontano identità, biodiversità e autenticità. Scopriamo insieme cinque esempi emblematici di questa rinascita enologica italiana.
🍇 Timorasso – L’identità rinata del Piemonte orientale
Il Timorasso è un vitigno a bacca bianca originario delle colline tortonesi, nell’Alessandrino, e rappresenta uno dei più affascinanti casi di rinascita dell’enologia italiana. Per decenni, questa varietà è stata quasi dimenticata, relegata a poche vigne residuali o addirittura estirpata a favore di uve più produttive come il Cortese. La sua riscoperta si deve al coraggio e alla visione di Walter Massa, che negli anni Ottanta ne intuì il potenziale straordinario. Il Timorasso ha caratteristiche uniche: il grappolo è compatto, con buccia spessa e un elevato contenuto in sostanze aromatiche. Dà origine a vini di grande corpo, minerali, complessi, con un potenziale d’invecchiamento sorprendente per un bianco. Nelle versioni giovani emergono note di fiori bianchi, miele e agrumi; col tempo compaiono nuance di idrocarburo, frutta candita e pietra focaia, richiamando i grandi Riesling renani.
In bocca è strutturato, avvolgente e sostenuto da un’acidità vivace che ne garantisce equilibrio e longevità. Le versioni più importanti possono evolvere per oltre dieci anni. Il territorio di riferimento è oggi il Derthona DOC, simbolo di un bianco piemontese capace di competere con i migliori Chardonnay e Riesling internazionali. È un vino gastronomico, ideale con piatti saporiti come risotti ai funghi, formaggi stagionati e carni bianche in salsa.
🍷 Nerello Cappuccio – Il lato gentile dell’Etna
Il Nerello Cappuccio è una delle due varietà principali del versante etneo, insieme al più noto Nerello Mascalese. Meno conosciuto, ma altrettanto interessante, deve il suo nome alla forma del grappolo, avvolto da foglie come in un “cappuccio”. Tradizionalmente usato come vitigno complementare, sta oggi trovando una nuova identità grazie a produttori che ne vinificano espressioni in purezza. Questo vitigno cresce tra i 400 e i 900 metri di altitudine sui terreni vulcanici dell’Etna, dove il suolo, ricco di minerali e ceneri laviche, conferisce ai vini un’impronta aromatica inconfondibile. Il Nerello Cappuccio produce vini dal colore rubino intenso, con riflessi violacei e profumi che spaziano dai frutti rossi maturi alle erbe aromatiche, dalla violetta alla grafite.
Rispetto al Mascalese, offre tannini più morbidi, acidità più moderata e un corpo più pieno. In bocca è equilibrato, fresco e fine, con un finale sapido che richiama l’origine vulcanica. È un vino versatile negli abbinamenti: ottimo con piatti di carne bianca, pesci grassi, zuppe rustiche siciliane e persino con formaggi stagionati a media intensità. Negli ultimi anni, molte cantine dell’Etna — come Benanti, Tornatore e Graci — stanno contribuendo alla valorizzazione di questa varietà, elevandola da “spalla” a protagonista. Il Nerello Cappuccio rappresenta oggi il volto più delicato e profondo dell’Etna: un rosso mediterraneo dal cuore minerale.
🍷 Susumaniello – Il riscatto del Salento

Tra le varietà pugliesi più affascinanti, il Susumaniello occupa un posto speciale. Il suo nome deriva dal dialetto locale e significa “caricare come un somarello”, per la straordinaria produttività dei primi anni di vita. Con l’età, le rese si riducono drasticamente, ma aumenta in modo proporzionale la qualità delle uve, dando origine a vini più concentrati e complessi. Per lungo tempo il Susumaniello è stato utilizzato nei blend del Brindisi DOC e del Salice Salentino, ma dalla fine degli anni 2000 alcuni produttori visionari hanno iniziato a proporlo in purezza, restituendogli la dignità che merita. Oggi viene coltivato soprattutto nelle zone di Brindisi, Mesagne e Ostuni, su terreni argillosi e sabbiosi battuti dal vento marino.
Dal punto di vista sensoriale, il Susumaniello offre un profilo aromatico ricco di amarene, prugne, spezie dolci e note di ferro e terra bagnata. Al palato è denso, caldo ma equilibrato, con tannini setosi e una freschezza che sorprende, data la latitudine. Nelle versioni riserva o da appassimento, può raggiungere livelli di profondità e struttura simili a un Amarone del Sud. È un vino che parla di resilienza: una varietà un tempo dimenticata che oggi incarna la nuova identità del Salento, fatta di eleganza e autenticità. Ottimo con carni rosse alla griglia, ragù di selvaggina e formaggi stagionati, ma anche in abbinamento con piatti di cucina tradizionale pugliese.
🍷 Schioppettino – Il pepe nero del Friuli
Lo Schioppettino di Prepotto, conosciuto anche come Ribolla Nera, è uno dei vitigni rossi più rappresentativi del Friuli Venezia Giulia, ma la sua storia è segnata da una lunga parentesi di oblio. Negli anni ’60 la sua coltivazione era addirittura vietata, poiché non compariva nell’elenco ufficiale delle varietà autorizzate. Solo la determinazione di pochi viticoltori, in particolare quella di Piero Paolo Rapuzzi (Ronchi di Cialla), ne ha permesso la sopravvivenza e il riconoscimento ufficiale negli anni ’70. Lo Schioppettino produce vini dal colore rubino brillante, profumati di mora, lampone e spezie. Ma ciò che lo distingue è la caratteristica nota di pepe nero che domina il bouquet, rendendolo unico tra i rossi italiani. Al palato è fresco, elegante, con tannini fini e una chiusura sapida che invita al sorso successivo.
Grazie alla sua acidità e alla moderata alcolicità, lo Schioppettino si presta all’invecchiamento, sviluppando nel tempo complessità aromatica e finezza. I migliori esempi provengono dai terreni collinari marnoso-arenacei dei Colli Orientali del Friuli. È un vino da intenditori, che unisce austerità e grazia. Ottimo con salumi locali, funghi porcini, piatti di selvaggina e carni in umido. Simbolo di resistenza culturale, lo Schioppettino dimostra come la tutela della biodiversità sia anche una forma di orgoglio territoriale.
🍇 Coda di Volpe – La delicatezza campana
Vitigno antico già citato da Plinio il Vecchio, la Coda di Volpe è una varietà a bacca bianca storicamente diffusa in Campania. Il suo nome deriva dalla forma del grappolo, sottile e allungato, simile a una coda di volpe. A lungo considerata una varietà “secondaria”, veniva usata come complemento nel Greco di Tufo o nel Fiano di Avellino. Negli ultimi decenni, invece, alcuni produttori dell’Irpinia e dei Campi Flegrei hanno riscoperto la sua capacità di raccontare il territorio in modo autentico. Coltivata su suoli vulcanici e sabbiosi, la Coda di Volpe produce vini eleganti, equilibrati e di grande bevibilità.
Il profilo aromatico è gentile ma complesso: note di pera, mela gialla, ginestra e un accenno minerale e salmastro. In bocca è morbida, con acidità moderata e una piacevole persistenza. La vinificazione in acciaio preserva la freschezza, ma alcune interpretazioni con leggera maturazione sui lieviti o in barrique offrono maggiore profondità e struttura. È il vino della convivialità mediterranea: perfetto con piatti di mare, formaggi freschi, fritture leggere e cucina tradizionale campana. Rappresenta la sintesi ideale tra tradizione, eleganza e modernità. In un panorama dominato da varietà più celebri, la Coda di Volpe continua a conquistare chi cerca nei vini bianchi la voce autentica di un territorio.
Formazione e conoscenza
La diffusione della cultura del vino passa anche attraverso la formazione professionale. Nei corsi per sommelier di Degustibuss, la conoscenza dei vitigni autoctoni è parte integrante del percorso: comprendere il territorio, la storia e la tecnica di vinificazione è fondamentale per leggere un vino in modo consapevole. Studiare questi vitigni significa riscoprire la vera anima dell’enologia italiana, un patrimonio da valorizzare e trasmettere alle future generazioni di professionisti del vino.
La riscoperta dei vitigni dimenticati non è solo una tendenza, ma una necessità. In un mercato globale dove i gusti tendono a uniformarsi, l’Italia può e deve distinguersi per la sua ricchezza di identità. Scegliere un vino da un vitigno autoctono significa sostenere territori, produttori e storie.
È un atto di consapevolezza che ci riporta all’essenza del vino: un legame profondo tra uomo, natura e cultura.

